COSA C’E’ DIETRO IL NOME DI UN’ARTISTA MALEDETTA?
C’è come una convinzione generalizzata, e ormai storicamente consolidata, sul fatto che l’essere veri artisti sia connesso all’aver avuto una vita dura. Come se l’avere talento dipendesse da un misterioso nesso di causalità con l’avere sofferto tanto, con l’essere “maudit”. Eppure potrebbe non essere così. A voler fare un approssimativo calcolo probabilistico, possiamo facilmente raffigurarci quanto siano diffuse le sofferenze e le situazioni complicate in questo mondo, piuttosto che la serenità e la possibilità di avere una vita tranquilla. Alla larga diffusione delle difficoltà corrisponde una strettissima distribuzione di quella sensibilità che rende capaci di sentire le cose, di percepirle in maniera più forte rispetto agli altri. E’ molto probabile,quindi, che chi rientra nella minoranza di coloro che hanno sensibilità artistica rientrino anche nella maggioranza di quelli che sono colpiti da disgrazie. E’ il caso di Amy Winehouse, che sicuramente era dotata di estro artistico ma che non necessariamente sarebbe potuta rientrare nella schiera di coloro che hanno patito situazioni difficili. Ebbe a soffrire di atroci sciocchezze, potremmo dire parafrasando l’epitaffio di Verlaine. Eppure Amy era dotata di quella singolare percezione del mondo,di cui sono dotati gli artisti, che fa vivere tutto con un’intensità che rasenta la disperazione. Era una pura, un’integralista delle emozioni che non si è mai ripresa dal comune shock del divorzio dei genitori. Oggi un film evento, di Afis Kapadia (Amy- the girl behind the name), ricostruisce la sua biografia attraverso dei filmati inediti che la ritraggono nel retroscena del suo successo. La causa della sua morte prematura, l’alcol, le droghe, quella storia d’amore sbagliata, il lato oscuro della fama, la bulimia, sono ripercorsi a ritroso fino ai suoi primi passi, fino a quel “Mamma, ho trovato la dieta perfetta: mangio quello che voglio e poi vomito tutto” a cui la madre non ha ritenuto di dare importanza. E allora eccola la vera Amy dietro quel nome, una ragazza di 23 anni insicura, la cui più grave disgrazia nella vita è stata quella di non aver avuto due genitori attenti. La mancanza di un’attenzione adeguata nei confronti dei figli è un fenomeno comune, si sa. Se si è dotati di una buona dose di superficialità, tale da filtrare le emozioni ed attenuare la gravità di ogni cosa, si sopravvive. Ma se si vive tutto all’estremo, estreme saranno le conseguenze. Dai grezzi video amatoriali si evince tutta la fragilità di Amy che vuole andare in riabilitazione ma che rinuncia perché il padre dice che in fondo non ce n’è bisogno, la naturale evoluzione della storia nell’incappare in un amore devastante, morboso, con un uomo che sfrutta il suo successo e la inizia alle droghe. La pesante responsabilità dietro quelle parole del padre sul fatto che i figli devono salvarsi da soli, che non si può e non si deve intervenire. La stridente condizione di una diva per forza, che chiede al suo bodyguard se può andare al pub e che trae sollievo dal fatto che qualcuno finalmente le dica il “no” di cui tanto aveva bisogno. Il punto interrogativo irrisolto che lascia la sua morte solitaria in un pomeriggio di luglio all’età 28 anni, a causa dell’abuso di alcol e droghe.
“E’ davvero triste la fine, non trovate?” chiede Amy al suo staff dopo aver inciso “Back to black”. Nell’intonarla, quell’ultima parola sembra rimanere sospesa in aria fino ad inghiottirla nello stesso buio che sta cantando. “Blaaack…. Blaack… Black”.
Già, è triste per davvero.