Una riforma,quella del Senato, che non qualifica e non sopprime.
Una riforma non è buona in quanto riforma, ma se di qualità. Se, cioè, riesce a modificare un certo assetto e stato, in modo da migliorarlo.
La riforma della Costituzione, che
ha superato il primo “giro” delle letture del Senato e della Camera, è certamente una modifica anche troppo profonda alla nostra Carta fondamentale. Difficile, tuttavia, ritenere che si tratti di una riforma di qualità.
Indubbiamente, la correzione del Titolo V, con la riduzione dei poteri alle regioni e la riconduzione allo Stato di competenze strategiche (si pensi solo ai trasporti) è un aspetto positivo. Ma, se si ricorda che nel 2001 il Titolo V venne modificato a colpi di una risicatissima di maggioranza, anche all’epoca solo di centro sinistra, non può sfuggire che per questo aspetto, la riforma attuale non è altro se non un rimedio ad un – grave – errore del passato. Rimedio che ha tardato 15 anni, ed ha trasformato le regioni in tanti Leviatani, capaci di ingrossare di 40 miliardi in 10 anni la loro spesa complessiva, di perdere il controllo della spesa sanitaria e di innescare i troppi scandali sui rimborsi elettorali. Comunque, ben venga la rettifica al Titolo V.
Molto minore è la qualità della riforma del Senato. Se obiettivo, forse, condivisibile della riscrittura della Costituzione è semplificare l’assetto del Parlamento, rinunciando al bicameralismo perfetto, è evidente che la scelta davvero semplificatrice sarebbe abolire del tutto il Senato.
Invece, il Senato resta, con poteri legislativi limitati, ma comunque di notevole peso, per altro complicati da diversi sistemi di intervento a seconda della materia e con complessi poteri di richiedere la revisione delle proposte di legge.
Non solo il Senato resta, ma non sarà più elettivo, perché composto da “nominati” (21 sindaci, 95 tra presidenti e consiglieri regionali, 5 senatori scelti dal Presidente della Repubblica).
Coloro che si dicono favorevoli alla riforma osservano che i nuovi senatori, giocando un po’ con le parole, osservano che non sono in effetti “nominati”, ma tuttavia “eletti”, seppure non in via diretta dal corpo elettorale.
Tuttavia, se i nuovi senatori non saranno tecnicamente “nominati”, certo non si può sostenere che siano “eletti”, appunto perché eletti “di secondo grado”, e dunque non rappresentanti del popolo sovrano, ma degli enti da cui provengono: comuni e regioni.
Questo significa che una delle due camere del Parlamento, il Senato continuerà, sia pure con una serie di limitazioni, a concorrere all’esercizio del potere legislativo, ma senza aver ricevuto un mandato rappresentativo dal corpo elettorale, visto che i suoi componenti sono stati scelti dagli elettori per compiti ben diversi: amministrare comuni o legiferare a livello regionale.
La riforma del Senato, allora, non convince perché priva il popolo-corpo elettorale di un pezzo della propria sovranità. Infatti, il popolo è “sovrano” perché invia i propri rappresentanti in Parlamento che legiferando e controllando l’azione dell’esecutivo è dal popolo che trae la legittimazione a formare l’indirizzo della politica generale dello Stato.
Tra le forme dell’esercizio della sovranità c’è certamente il processo di selezione dei rappresentanti del popolo, mandati in Parlamento per rappresentarlo ed esercitare, per conto del popolo sovrano, il potere legislativo. Dunque, se una delle due camere non è eletta a suffragio universale direttamente dal popolo, l’esercizio della sovranità fortemente limitato. Come nella vigenza dello Statuto albertino, quando il Senato era integralmente di nomina regia.
Poiché i senatori non saranno rappresentanti del popolo sovrano non si capisce come sia possibile attribuire al Senato il potere di legiferare, anche se in maniera non paritaria con la Camera, visto che si tratta di un’assemblea creata su basi elettive che non trovano radicamento in alcun mandato diretto del popolo sovrano.
Vale poco dire che i senatori saranno eletti tra personale politico comunque a sua volta già eletto dal popolo. I consiglieri regionali ed i sindaci sono, sì elettivi, ma hanno chiesto la loro elezione a corpi elettorali ben diversi dal popolo sovrano italiano, eterogenei e sulla base di programmi ed impegni di natura locale. Al momento dell’elezione del sindaco i cittadini del comune lo scelgono per il programma di governo del comune, non per quello da svolgere nel Senato, non essendo nemmeno possibile immaginare per i cittadini se poi quel sindaco sarà eletto in Senato. E perché i cittadini del comune di Milano, per esempio, dovranno godere del privilegio di avere il proprio sindaco come senatore e non quelli, sempre per esempio, di Torino? Perché gli interessi di un comune in un certo lasso di tempo saranno direttamente presenti in una delle due assemblee legislative, e quelli di altri comuni no?
Una riforma come quella avviata, che scardina totalmente il potere di legiferare dal rapporto di rappresentanza del popolo sovrano, non può essere considerata una buona riforma.
Il valore di un’azione politica non è tanto il “riformare” o il “fare”, ma solo il “riformare bene” e il “fare bene”. Se non si riacquista questa semplice concezione, le riforme saranno solo una bandiera da sventolare, ma la loro utilità per lo sviluppo democratico del Paese risulterà molto dubbia.