UN REFERENDUM SENZA QUORUM COME PLEBISCITO. E SE IL POPOLO ASSENTEISTA TORNASSE ALLE URNE?
Molta parte della stampa e dei commentatori concordano sulla circostanza che nella conferenza stampa di fine anno il premier, evidenziando che il referendum confermativo della riforma della Costituzione condizionerà la sua permanenza a Palazzo Chigi, ha di fatto lanciato un plebiscito su se stesso.
La cosa fa storcere il naso a molti. Il perché è chiaro: il plebiscito ha un’accezione fortemente negativa, nell’immaginario collettivo, sebbene a molti sfuggano le ragioni di tale istintiva avversione a simile strumento di coinvolgimento della volontà popolare.
All’origine di questa visione negativa del plebiscito potrebbe essere la consapevolezza che esso nell’età repubblicana della Roma antica fosse un provvedimento avente valore di legge adottato per espressione di volontà della plebe, di solito allo scopo di porre veti o vincoli alle leggi approvate dai patrizi: uno strumento di pressione, che si prestava facilmente alle blandizie di chi sapeva “manovrare” la plebe. Le assemblee erano condotte dal “tribuno della plebe” ed anche questa locuzione, oggi, ha un’accezione negativa, in quanto del tribuno si ha un’idea di populista.
Tuttavia, la vera ragione dell’avversione nei confronti dei plebisciti deriva da vicende storiche molto rilevanti e gravi, alle quali sono riconnesse compressioni estreme della democrazia e l’assegnazione di poteri straordinari ad un dittatore.
L’esempio più clamoroso è il plebiscito del 1802, col quale Napoleone Bonaparte, già nominato poco tempo prima “Primo Console”, fu proclamato “Console a vita”, aprendosi così la strada alla costituzione in via di fatto dell’Impero, poi consacrata nel 1804 in via di diritto. Vollero che Napoleone mantenesse a vita la carica di Primo console 3,5 milioni di francesi; votarono contro solo in 8374.
Napoleone seppe utilizzare appieno del plebiscito come strumento populistico per ottenere una legittimazione altrimenti non ricavabile dalla Costituzione e dalle leggi vigenti, facendo leva sull’enorme popolarità ottenuta grazie alle molte battaglie vinte fino a quell’epoca e alla “pace di Amiens”. Sappiamo, poi, com’è finita: di fatto Napoleone, pur con la qualifica di Imperatore, aveva creato una vera e propria dittatura personale.
Un altro esempio che molti in Italia hanno rimosso, anche inconsciamente, sono i plebisciti dell’epoca fascista.
Consolidata la maggioranza in Parlamento grazie alla legge Acerbo (in molti aspetti estremamente simile all’Italicum) alle elezioni del 1924, il Fascismo riformò ulteriormente la normativa elettorale con la legge 17 maggio 1928 n. 1029 ed il Testo Unico 2 settembre 1928, n. 1993, che introdussero il sistema elettorale di tipo plebiscitario. Non vi erano più libere elezioni, con la possibilità di scegliere il partito ed i candidati. I plebisciti prevedevano un Collegio unico nazionale chiamato a votare o a respingere una lista precostituita di 400 deputati, formata dal Gran Consiglio del Fascismo. Il “corpo elettorale” poteva solo esprimersi con un “sì” o un “no” sul complesso della lista, dunque approvando o respingendo in toto il listone imposto dal partito fascista. Anche in questo caso, il legame tra il plebiscito ed una conduzione dittatoriale è inscindibile ed evidente.
La situazione attuale ha poco o nulla a che vedere con gli eventi storici fin qui richiamati. Il premier certamente sa di essere carente della legittimazione popolare ed ha proclamato, di fatto, il plebiscito su se stesso per rimediare, convinto probabilmente dall’assenza di un quorum minimo di votanti. Quasi tutti i referendum tenutisi negli ultimi anni sono naufragati per l’enorme astensionismo. Forse a Palazzo Chigi si pensa che il popolo compatto che ha votato l’attuale maggioranza basterà a vincere il referendum/plebiscito, se l’astensionismo verrà confermato anche questa volta. Il premier, dunque, avrebbe ben calcolato gli effetti della propria capacità di “presa” mediatica e del suo attuale sostegno, prima di azzardare il proclama della conferenza stampa.
Una mossa certamente molto di teatro e abile, ma non priva di insidie: nulla esclude che proprio la qualificazione del referendum come un plebiscito di fatto possa far tornare alle urne anche il popolo dell’astensione, con il rischio di sovvertire ogni pronostico.
Resta, tuttavia, il fatto che il plebiscito, sia pure evocato solo in via di analogia, suscita cattivi ricordi e pensieri. Meglio sarebbe stato parlare del referendum confermativo per quello che è: uno strumento per confermare o meno la riforma della Costituzione.