Presidi manager,precari assunti,senza computer ed edifici cadenti. Arriva la buona scuola di Renzi.
Una riforma della scuola ambiziosa, ma abbastanza fuori dalla realtà e le sue emergenze. Il disegno governativo, come spesso in questi mesi, è altamente suggestivo ed evocativo. Il problema è che le misure concrete non sembrano in grado di risolvere subito i problemi reali ed immediati.
Senza scomodare le questioni complicate della didattica e dell’autonomia; trascurando anche la questione delicatissima del sistema di valutazione dei docenti, un po’ semplicisticamente, sembra, affidato al dirigente, inevitabilmente qualificato come “manager” in omaggio al provincialismo italiani, il nodo primo ed essenziale della scuola sono le risorse, i soldi per farla funzionare.
Si prevede un investimento non da poco, per assumere 100.000 (anziché i promessi 148.000) precari. La domanda è se in questo modo si fa un investimento sul futuro e sul ricambio generazionale, oppure si paghi pegno per promesse non facilmente eludibili, data la vasta platea di destinatari e considerato che circa un terzo di questi restano con un palmo di naso.
I precari della scuola sono tutt’altro, ormai, che giovani di belle speranze. Difficilmente li si può raffigurare come giovani al servizio del ricambio.
L’investimento sul futuro, dunque, è più di scenario, che di sostanza. Specie se si pensa all’altra delicatissima questione connessa alle risorse: il funzionamento stesso e le strutture delle scuole.
Il disegno di legge insiste e conferma gli sgravi per le scuole paritarie: le spese di iscrizione dei figli potranno essere detratti sin dalla scuola dell’infanzia e fino alla scuola media.
Oscar Giannino, su Il Messaggero del 13 marzo, afferma che non c’è nulla di male a finanziare con risorse pubbliche le scuole private: si garantisce la differenziazione dell’offerta e maggiore libertà di scelta. Indubbio ed innegabile. Giannino aggiunge, inoltre, che la la scuola paritaria fa anche risparmiare. Bisognerebbe capire, però, chi beneficia di questo risparmio. Chi paga le tasse per finanziare i servizi pubblici universali e si ritrova a cofinanziare soggetti privati, alleggerendo il carico di spesa di chi intende (legittimamente) avvalersi della scuola privata? Oppure, chi appunto trae dalla fiscalità generale una riduzione del costo della scuola privata alla quale intende rivolgersi per l’educazione dei figli?
Sta di fatto che, come sempre, le scuole crollano, sono malsane, hanno infrastruture tecnologiche inadeguate: immaginare una classe nella quale si usano tablet e pc e videoproiettori appare, ancora nel 2015, fantascienza.
Ma, di investimenti su edilizia e dotazioni non se ne parla, se non nelle slide. Comuni e province, competenti alla manutenzione, costruzione e rinnovamento delle scuole sono vessati dal patto di stabilità, che impedisce le spese di investimento. Le province, addirittura, colpite dalla furia abolizionista, sono condannate al dissesto e all’impossibilità di investire nelle scuole superiori.
Il disegno di legge offre pannicelli caldi, come la possibilità di destinare il 5. O lo “school bonus” (sempre per non privarsi di inglesismi provinciali), a favore di farà donazioni alle scuole per la costruzione di nuovi edifici, per la manutenzione, per la promozione di progetti dedicati all’occupabilità degli studenti.
Come se la scuola pubblica dovesse dipendente dalla liberalità di qualche magnanimo mecenate e non da uno sforzo complessivo della società a tenere il livello base della scuola pubblica non uguale, ma maggiore di quello delle scuole paritarie. Per trascinare verso l’alto l’intero sistema.
La riforma, così come concepita, appare, invece, una ritirata dello Stato, che difficilmente andrà a beneficio del valore pubblico.