Meno poteri ai magistrati per tutelare l’esecutivo. Renzi fa l’illuminista ma Montesquieu diceva altro.
Charles-Louis de Sécondat, barone di Montesquieu, deve essersi sentito molto disturbato dalla chiamata in causa da parte del premier Renzi, a proposito della nomina o della revoca di ministri e sottosegretari indagati.
Secondo il premier “quando dico, e so che perdo voti dicendolo, che un sottosegretario indagato non si deve dimettere, sto difendendo il principio di Montesquieu. Se consentiamo di stabilire un nesso tra avviso di garanzia e dimissioni si sta dando per buono il principio per cui qualsiasi giudice può iniziare un’indagine e decidere sul potere esecutivo”.
Partiamo dalla fine delle affermazioni, piuttosto discutibili sul piano dello stretto diritto. Qualsiasi giudice non può affatto iniziare un’indagine a sua discrezione, come e quando creda, allo scopo di decidere sul potere esecutivo. Il giudice, per essere più corretti, il pubblico ministero è tenuto ad avviare l’indagine solo e se vi sia una notizia di reato. E, poiché vale il principio che la legge è uguale per tutti, l’indagine deve essere avviata anche laddove la notizia di reato riguardi un ministro o un sottosegretario.
Ciò, per altro, ancora a maggior ragione se l’indagine avviata riguardi qualcuno che non sia né ministro, né sottosegretario. Non si deve, infatti, dimenticare che il riferimento del premier è alla richiesta, piovuta da più parti, di dare il benservito, dopo le dimissioni di Lupi, ai 5 sottosegretari Giuseppe Castiglione, Davide Faraone, Umberto Del Basso De Caro (il PM ha richiesto l’archiviazione), Vito De Filippo, Francesca Barracciu, i quali sono stati raggiunti dagli avvisi di garanzia prima che entrassero a far parte delle fila del Governo e non dopo.
Tornando, invece, alla parte iniziale dell’affermazione di Renzi, è bene sottolineare che il barone di Montesquieu con la condizione di indagato di un membro del Governo non ha nulla a che vedere. Il principio di separazione dei poteri, teorizzato e definito dall’illustre esponente dell’illuminismo francese, è stato posto come fondamento di uno Stato che non fosse più identificato col monarca (l’etat c’est moi), come fosse una sua proprità, sicché del monarca sono tutti i poteri: legiferare, governare e giudicare. Il frutto più importante e duraturo del pensiero politico illuminista è proprio il concetto di distribuzione e divisione del potere nel modo più orizzontale possibile, attraverso il complesso reticolo dei pesi e contrappesi (check and balances).
Il processo storico dimostra che la divisione dei poteri non è stata pensata per difendere il potere esecutivo da quello giudiziario, ma, esattamente all’opposto, per privare il detentore del potere esecutivo del potere giudiziario.
Il contrappeso al potere giudiziario sta nelle garanzie costituzionali poste a disciplinare l’azione penale, tra le quali la principale è la presunzione di non colpevolezza, fino all’ultimo grado di giudizio. Contrappesi specifici sono previsti, poi, per i titolari della massima carica pubblica, cioè i rappresentanti del popolo eletti nel Parlamento, che, come noto, può fermare in vari modi l’azione penale, vagliando se essa sia caratterizzata da un inammissibile fumus persecutionis, cioè dal pericolo che il PM possa attivare l’azione penale apposta per incidere sulle libertà politiche di un componente del Parlamento. E si dovrebbe, oltre tutto, ricordare che questa garanzia è pensata espressamente in favore delle minoranze parlamentari. Se, dunque, i membri del Governo sono anche parlamentari, sono coperti da tali garanzie, altrimenti no.
Non esiste, dunque, alcuna connessione tra la teoria della separazione dei poteri e indagini giudiziali che riguardino componenti del Governo non aventi la carica di parlamentare.
Dunque, nel momento in cui qualsiasi premier ritenga di non dover chiedere le dimissioni o agire per la revoca dei sottosegretari compie una valutazione interamente es esclusivamente personale e discrezionale, che non ha alcun fondamento giuridico.
Come, infatti, nessuna norma giuridica impone ad un sottosegretario indagato di dimettersi o al premier di agire per imporre le dimissioni, nessuna norma prevede che il sottosegretario indagato resti al suo posto, se indagato.
Non è una questione da trattare sul piano giuridico, ma solo dell’opportunità, politica ed etica. Non appare, in conclusione, corretto celare una scelta discrezionale e di opportunità, dietro un falso schermo di giuridicità, che dà troppo l’impressione di una ricerca della deresponsabilizzazione delle scelte assunte.