ADESSO IL REFERENDUM SEMPRE PIU’ NERVOSO E MENO “COSTITUZIONALE”
di Luigi Oliveri
Il voto amministrativo, a due anni dall’insediamento del Governo in carica e dalla “droga” al voto delle europee dovuta alla manovra degli 80 euro dimostra che il Paese è ancora fermo e bloccato nei suoi problemi.
L’onda di entusiasmo si è molto attenuata. Del resto, al di là del segnale appunto degli 80 euro, in questi due anni non si sono visti risultati tali da evidenziare l’addio ad una crisi che non vuole mollare.
Troppi elementi ancora non vanno. Il lavoro non decolla assolutamente: nei primi mesi del 2016 il livello di occupazione è tornato al di sotto del 2014, ad ulteriore prova che nel 2015 la piccola ripresa occupazionale è stata dovuta esclusivamente alla regalìa alle imprese, costituita dal bonus triennale di 8.040 euro sulle assunzioni. Anche se sono state portate al fallimento controllato (in gergo “risoluzione”) solo il gruppo delle 4 banche capeggiata dall’Etruria, è l’intero sistema bancario in crisi profondissima: il Monte dei paschi non si è ripreso, il Banco Popolare di Vicenza semina ancora suicidi tra gli azionisti, la fusione tra Banco Popolare e Banca Popolare di Milano ha prodotto solo un abbassamento vertiginoso del valore delle azioni.
La produzione industriale sarebbe in decrescita clamorosa, se non vi fosse stato il biennio d’oro della Fiat. La spending review di cui tanto si parla non è pervenuta e il binomio spesa pubblic-debito pubblico continua a crescere.
In una parola, le “riforme” tanto decantate e tanto perseguite non hanno funzionato. E a distanza di 2 anni, la “narrazione” in qualche misura cede il passo alla realtà. Che presenta il conto: carissimo a Torino, ove si è materializzata una sconfitta per Fassino che ha del clamoroso; e a Napoli, dove non si deve dimenticare la debacle al primo turno della candidata iper renziana, nonostante milioni di investimenti a Bagnoli da parte del Governo. Ma anche a Roma la proporzione della vittoria della candidata di M5S dimostra che il partito che esprime il premier abbia, adesso, il fiato corto, dimostrato anche a Milano: la vittoria di Sala, infatti, è di strettissima misura, nonostante Expo, nonostante il traino dell’amministrazione di Pisapia, da tutti giudicata ottima.
Ed è facile immaginare cosa sarebbe avvenuto se non si fosse scelta la furberia di separare il voto del referendum sulle “trivelle” dalle elezioni amministrative: probabilmente lo schema plebiscitario voluto dal premier “o con me, o contro di me” avrebbe esteso a dismisura la sconfitta del partito con la maggioranza relativa, portando alla debacle.
Adesso, le prospettive per il referendum di ottobre si fanno durissime. Le elezioni del 19 aprile dimostrano, infatti, che le opposizioni fanno “fronte” contro il Pd, pur senza aver stipulato un’alleanza organica. E, poiché il sistema politico italiano è ormai attestato su tre poli e non solo su due, la matematica non dà scampo: se gli elettori di due dei tre poli si aggregano in una votazione che dà solo due alternative (i ballottaggi, come i referendum), il partito che resta isolato non ha scampo.
Ci sono tutte le premesse perché da qui ad ottobre il nervosismo salga alle stelle, come hanno dimostrato le ultime ore della campagna elettorale a Roma, quando si sono cercati tutti i mezzi per mettere in difficoltà la Raggi, anche su elementi sostanzialmente infondati.
Il problema è che le prime analisi non pare abbiano colto del tutto il segnale reale di queste elezioni, per quanto parziali esse siano. Il Sole 24 Ore del 20 giugno, a firma del proprio direttore e, quindi, col timbro dell’editore confindustriale, invita sostanzialmente il governo ad andare avanti nel disegno sin qui prodotto, anzi rafforzando ulteriormente il tratto. Quello stesso tratto che ha facilitato i licenziamenti senza produrre alcun incremento di reddito e di spesa. Cioè, esattamente le conseguenze sociali ed economiche che hanno indotto gli elettori a dirsi espressamente contrari proprio alle politiche confindustriali, fin qui seguite in modo piuttosto chiaro dal Governo, mediante le “riforme” i cui esiti concreti se nell’economia risultano sostanzialmente nulli (a parte i benefici a pochi datori di lavoro), nell’elettorato hanno prodotto un senso di rifiuto.