ABOLIZIONE DEL SENATO? UNA MINACCIA CHE RENDE LA TOPPA MEGLIO DEL BUCO.
Per una volta è da auspicare fortemente che il “piano B” prevalga sul “piano A”. Negli scorsi giorni il premier, tornando alla carica sulla riforma del Senato messa molto a rischio dalla defezione di oltre una ventina di esponenti della minoranza del partito del quale è segretario, allo scopo di andare avanti spedito ha minacciato una carta di riserva: l’abolizione del Senato, sostituendolo con un museo.
Per una volta, sarebbe il caso di prendere in seria considerazione da parte di tutti l’opportunità dietro alla minaccia.
Al di là dei problemi di legittimazione di un Parlamento eletto con una legge incostituzionale di mettere mano alla Carta fondamentale, la riforma del Senato come disegnata dalla riforma della Costituzione all’esame del Parlamento francamente appare fallimentare.
E’ pur vero che la si può lasciar passare, nella propaganda, come rinuncia al bicameralismo perfetto, in nome della maggiore efficienza e speditezza dell’iter legislativo. Ma, sarebbe, appunto, solo propaganda. Sì, perché il Senato resterebbe coinvolto in larga parte del processo normativo, ma, soprattutto, la riforma ingenera un’enorme confusione, perché fa nascere oltre 25 diversi iter legislativi, a seconda della materia da trattare. Ciascun iter ha termini diversi e richiede pronunce di diversa natura del Senato: alcune preventive, altri solo pareri, altri ancora votazioni con pari poteri rispetto alla Camera, altri ancora voti superabili dal voto finale della Camera. Basta sbagliare un termine, una modalità, un passaggio procedimentale e le leggi sono esposte ad un rischio di incostituzionalità enorme, esaltato proprio dalla farraginosità della riforma.
Non si vuole toccare, poi, il tema dell’opportunità di costituire il Senato con soggetti nominati dai partiti, derivanti dalle regioni e dai comuni, esattamente, cioè, quegli enti che ancora in questi giorni si distinguono per aver creato (le regioni) un buco di oltre 20 miliardi utilizzando in malo modo le somme destinate invece ai pagamenti delle aziende creditrici, oppure per aver gestito appalti, lavori ed attività nel modo che si è visto a Roma o Venezia.
Sta di fatto che la riforma all’esame, più che eliminare il bicameralismo perfetto, finisce per creare un bicameralismo imperfetto. Molto imperfetto.
Se proprio, allora, occorre mettere mano alla Costituzione ed incidere sul funzionamento del potere legislativo, meglio eliminare il Senato del Tutto: il sistema più chiaro per passare dal bicameralismo al monocameralismo, tenendo anche presente che in Italia non occorre per nulla un Bundesrat alla tedesca, come qualcuno vorrebbe configurare il Senato riformato, in quanto “espressione delle autonomie”. In Germania il Bundesrat ha una precisa ragione di esistere, perché si tratta di una repubblica federale, nella quale è opportuna l’esistenza di una camera che disciplini e coordini l’operato dei territori federati.
L’Italia non è uno stato federale, dunque di un Senato delle autonomie non vi è bisogno alcuno, tanto più che la Conferenza Stato-regioni da anni svolge il ruolo di coordinamento e negoziato tra le istituzioni, per definire i contenuti delle norme aventi impatto sulle autonomie territoriali.
Il piano B avrebbe quanto meno il merito di mantenere chiaro il processo legislativo, anche se non occorre farsi illusioni sulla presunta abbreviazione dei tempi decisionali. Se si guarda all’esempio proprio delle regioni, nelle quali è il solo consiglio regionale ad approvare le leggi, si scopre una bassissima produttività ed una lentezza esasperante nell’approvazione delle leggi. Il che conferma che non è la presenza di due camere la causa di processi legislativi estenuanti, ma la negoziazione partitica extraparlamentare. Esattamente quella che sta rallentando proprio la riforma della Costituzione.