STIPENDI D’ORO E BILANCI OPACHI TENDONO A DELEGITTIMARE IL SINDACATO
Dietro la non notizia degli “stipendi d’oro” dei dirigenti sindacali v’è sicuramente qualcosa d’altro.
Appare paradossale che in questi giorni campeggi sui giornali senza soluzione di continuità la polemica sulle ricche retribuzioni di alcuni vertici delle organizzazioni sindacali. Appare una replica, anzi la clonazione, delle filippiche che periodicamente i media riservano ai trattamenti economici dei vertici delle società pubbliche o dei massimi dirigenti pubblici.
Ma, proprio qui sta la differenza. In linea di principio, i sindacati sono associazioni private. Essi ricavano la gran parte dei propri introiti dalle quote associative versate dagli iscritti e da attività di gestione in investimenti anche immobiliari o servizi.
In quanto soggetti privati, i sindacati sono perfettamente liberi di determinare le remunerazioni dei propri quadri come meglio vogliono e ritengono, sulla base di criteri da essi fissati, come avviene in qualsiasi azienda privata.
Da questo punto di vista non si capisce assolutamente quale possa essere la “pietra dello scandalo”. A meno che non si voglia abbracciare un’impostazione pauperista della vita, secondo la quale l’obiettivo di una Nazione debba essere quello di mantenere basso il livello remunerativo di tutti, in modo da non suscitare astio tra parti sociali.
In effetti, il perdurare della crisi sta spingendo moltissimi a ritenere che la “cura” debba consistere nel livellamento verso il basso: così, i molti esclusi dal mercato del lavoro o vittime di contratti precari e mal pagati alzano canti di gioia se apprendono che categorie tutelate come i dipendenti pubblici possono essere licenziati o quando altri come loro perdono il lavoro, così come levano moralisti ed indignati urli contro gli stipendi “d’oro”, da chiunque percepiti.
Ai sindacati potrebbero essere imputate molte altre responsabilità. Quelle, cioè, di aver per troppo tempo co-gestito amministrazioni ed enti pubblici, di essersi dimostrati troppo tiepidi nei confronti di diverse riforme come quelle delle pensioni, di essere troppo attratti dalla gestione ed i connessi buoni affari dei fondi pensione, di ottenere fin troppe prebende pubbliche con l’attività dei Caf, frutto che sembra derivare dal preciso intendo dell’amministrazione finanziaria e pensionistica di complicare gli affari semplici e rendere indispensabili intermediari che a caro prezzo compilino dichiarazioni, moduli e disbrighino pratiche.
Certo, i sindacati potrebbero essere meno opachi sia nella gestione dei propri bilanci, sia nell’evidenziare i criteri “meritocratici” in base ai quali attribuiscono incarichi operativi e connesse retribuzioni.
Tuttavia, appare evidente che nei confronti di organizzazioni comunquein grado di “opporsi” al governo di turno e costituire un corpo intermedio con cui negoziare, magari non sempre bene e in modo trasparente, si stia ripetendo uno schema già visto. Prima, la delegittimazione fondata sullo spreco del denaro (poco importa se in questo caso non sia pubblico); poi, la campagna senza sosta sulla loro inutilità, sul loro essere antiquati, contrari alla modernità e pregiudizialmente contrari alle “riforme”. Per poi giungere alla loro abolizione o unificazione in un unico sindacato di provenienza governativa.
Le premesse per giungere, col tempo, a questo risultato pare vi siano tutte. Non resta che assistere all’escalation della campagna di stampa, per averne conferma.