SOLO NARRAZIONE MEDIATICA. LE TUTELE CRESCENTI IN REALTA’ SAREBBERO UN PASSO INDIETRO PER I LAVORATORI.
Le chiamano “tutele crescenti”. Ma è un espediente mediatico e comunicativo, per far accettare quella che si rivela una vera e propria controriforma dei diritti del lavoro, cioè un epocale passo indietro proprio nelle tutele dei lavoratori.
Tutele “crescenti”, dunque. Ma cosa è che davvero cresce? Guardando agli ultimi decreti legislativi attuativi del Jobs Act approvati in via definitiva o avviati all’iter a seguito della seduta del Consiglio dei ministri dello scorso 11 giugno, per i lavoratori cresce ben poco.
Le mansioni, per esempio. Un tempo, il codice civile le disciplinava realmente in modo da consolidare la loro “crescita”: acquisita una maggiore esperienza lavorativa e la correlata mansione superiore, non si poteva tornare indietro e, comunque, il lavoratore aveva diritto a permanere nelle mansioni alle quali era stato adibito al momento dell’assunzione.
Invece, il decreto legislativo sul riordino delle forme contrattuali introduce la possibilità per il datore di lavoro di demansionare il dipendente, in presenza di “esigenze aziendali” che non sfocino in crisi, ma nella necessità/opportunità, per altro insindacabili, di modificare al ribasso le mansioni del lavoratore, con le conseguenze economiche connesse in particolare al salario accessorio.
O, ancora, le tutele contro il lavoro nero. Il decreto legislativo sulla semplificazione degli adempimenti e dei controlli elimina la sanzione della sospensione dell’attività lavorativa a carico dell’azienda che impieghi lavoratori in nero. Un bel “favore” a settori, come quello dell’edilizia, nei quali storicamente il lavoro nero è una piaga che altera la concorrenza, riduce la qualità dei lavori, favorisce l’evasione fiscale e contributiva e il ristagno dell’economia.
E che tutele “crescenti” vi sono nei confronti delle troppe forme di lavoro esistenti, in particolare quelle ibride, il famigerato lavoro “parasubordinato”? Sostanzialmente nessuna. Le co.co.co. restano come prima: formalmente, i decreti legislativi attuativi del Jobs Act le riducono, la lasciano ai contratti collettivi piena possibilità di derogare e reintrodurre senza alcun limite dalla finestra le collaborazioni uscite dalla porta.
E la Cassa integrazione? Cresce il numero delle aziende che possono accedervi, in quanto si estende l’istituto anche a quelle con almeno 5 dipendenti, ma si dimezza e, dunque, decresce, la durata che non potrà superare i 24 mesi.
E’ noto ormai da tempo che le cosiddette “tutele crescenti” hanno privato il lavoro a tempo indeterminato della salvaguardia del reintegro nel caso del licenziamento illegittimo, istituendo di fatto come unica “tutela” l’indennità economica che, per altro, per i primi sei anni di lavoro risulta più che dimezzata rispetto ai minimi ante riforma. Sì che il contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti” atro non è se non un contratto del quale non è fissato il termine finale, discrezionalmente determinabile a proprio piacimento dal datore di lavoro, sostanzialmente a “monetizzazione crescente” dell’indennità di licenziamento.
La “narrazione” delle riforme parla di “tutele” che “crescono”, imprimendo nella mente della società un sistema di progresso, maggiori garanzie, modernità.
La realtà dietro la narrazione evidenzia, invece, un ritorno al passato remoto della normativa sul lavoro, nel quale a crescere, se crescono, sono più che altro alcune garanzie per i datori, ma non tutti: solo le grandissime imprese. Tipo quelle che, pur non pagando più le tasse in Italia, si spendono ogni giorno in favore di queste riforme, annunciando nuovi modelli e nuove assunzioni che, per altro, sono solo trasformazioni di contratti di lavoro precari in contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti. Per chi?