PIU’ DISOCCUPATI PER L’ISTAT PIU’ RIPRESA PER IL GOVERNO. L’OTTIMISMO E’ PROPAGANDA
Continua la Waterloo dell’occupazione. L’Istat ha certificato ancora una volta l’inefficacia delle misure sin qui adottate dal Governo in tema di mercato del lavoro, con l’analisi impietosa di quel che è successo a giugno 2015, cioè a 6 mesi dall’entrata in vigore dei ricchi sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato e a 3 mesi dalla vigenza del Jobs Act.
I dati rivelano una completa stasi, anzi recessione: “a giugno 2015 gli occupati diminuiscono dello 0,1% (-22 mila) rispetto al mese precedente. Il tasso di occupazione, pari al 55,8%, cala nell’ultimo mese di 0,1 punti percentuali. Rispetto a giugno 2014, l’occupazione è in calo dello 0,2% (-40 mila), mentre il tasso di occupazione rimane invariato. Il numero di disoccupati aumenta dell’1,7% (+55 mila) su base mensile. Dopo il calo nel mese di aprile (-0,2 punti percentuali) e la stazionarietà di maggio, a giugno il tasso di disoccupazione cresce di 0,2 punti percentuali rispetto al mese precedente, arrivando al 12,7%. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è aumentato del 2,7% (+85 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,3 punti percentuali”.
Nonostante di fronte a questa impietosa situazione il Governo per voce del Ministro del Lavoro Poletti ancora insista con propagandistico ottimismo, alzando spallucce, ormai le dinamiche dell’economia e del lavoro in particolare sono abbastanza chiare.
L’unico dato in minima parte positivo di questi mesi è consistito nella leggera crescita del numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato sul totale dei rapporti attivati mensilmente. Ma, questo non vuol dire affatto che il lavoro sia aumentato (come le rilevazioni Istat dimostrano), né che vi possa essere una maggiore propensione delle imprese ad assunzioni di lunga durata. La leggera crescita dei contratti a tempo indeterminato deriva soltanto proprio dagli sgravi triennali previsti dalla legge di stabilità 2015 fino al massimo di circa 8.000 euro l’anno.
Le imprese, in un mercato del lavoro fermo che non ha creato in un anno nemmeno un posto di lavoro in più e ne ha, anzi, persi 40.000, hanno assunto qualcuno a tempo indeterminato solo in quanto ha trovato la convenienza economica.
L’elemento, però, fortemente negativo di questa evidenza è che le aziende hanno assunto personale che avrebbero comunque assunto lo stesso, anche senza sgravi, magari con contratti a tempo determinato.
Gli incentivi alle assunzioni, che nel triennio 2015 – 2018 costeranno circa 15 miliardi, dunque, non sono serviti per creare nuovi posti di lavoro, ma più che altro per rendere un po’ vantaggiose assunzioni già previste o per trasformare contratti di lavoro a termine in contratti di lavoro a tempo determinato, con saldo zero sul mercato del lavoro nel suo complesso.
All’inefficacia degli sgravi, si aggiunge anche quella del Jobs Act e, in particolare, la sostanziale abolizione dell’articolo 18. Questa è stata spacciata come elemento decisivo per indurre le imprese ad assumere: si è propagandato che eliminando gli ostacoli giuridici ed economici a licenziare, le imprese si sarebbero sentite più libere di attivare rapporti di lunga durata.
Non era vero nemmeno questo. Le imprese non assumono a tempo indeterminato in relazione alla libertà di licenziare. Le imprese assumono se hanno ordini, se ottengono pagamenti nei tempi prefissati, se le banche le sostengono, se la domanda interna, come quella estera, sono sostenute, se l’economia cresce. Altrimenti, non possono altro che porre in essere strategie di attesa o speculative, come quella delle assunzioni incentivate.
L’Istat, allora, certifica quello che tutti sanno, ma il Governo ha voluto ignorare: il lavoro non si crea per legge o per decreto. Né drogando il mercato con incentivi alle assunzioni fuori bersaglio: gli sgravi avrebbero dovuto essere garantiti o per target particolarmente svantaggiati di lavoratori (giovani under 29 o lavoratori over 55, ad esempio), oppure in presenza di incrementi della base occupazionale datoriale, misurata in una media di almeno un triennio.
Allargando lo sguardo, le analisi dell’Istat confermano un altro fatto notorio, ma messo in naftalina dalla propaganda governativa: con un Pil che, se cresce, lo deve solo alla diminuzione del costo del petrolio e all’allentamento della stretta monetaria deciso dalla Banca centrale europea e non alla domanda interna, la produzione resta al palo. Ma se la produzione resta ferma, il lavoro non può certo aumentare.
Ancora, le politiche “economiche” del Governo mostrano integralmente gli errori di prospettiva. I famosi 80 euro, che sono costati in questi due anni circa 16 miliardi, non hanno accresciuto la domanda e la capacità della spesa dei destinatari. Anche perché, non solo non si è trattato di una riduzione di tasse, bensì di un contributo selettivo a parte della popolazione; ma anche laddove lo si considerasse un alleggerimento fiscale, esso è stato azzerato dalla crescita della pressione fiscale locale, aumentata, secondo le rilevazioni della Corte dei conti, del 22% in 3 anni, perché i comuni hanno fatto fronte ai tagli subiti dal Governo, aumentando tutte le proprie imposte.
Insomma, il cane si morde la coda: per assicurare alle imprese gli sgravi e a parte dei cittadini gli 80 euro, lo Stato ha aumentato la spesa di circa 30 miliardi, tagliandoli in varia misura anche agli enti locali, che hanno reagito aumentando le tasse. Il risultato finale è zero crescita, zero lavoro.