PIU’ DEFICIT E MENO RIDUZIONE DELLA SPESA CON LA NUOVA LEGGE DI STABILITA’
Deficit di spending review. Il gioco di parole fotografa perfettamente il disegno di legge di stabilità (pardon, fiducia) approvato il 15 ottobre dal Consiglio dei Ministri. Un disegno di legge in cui la spending review è quasi assente e la spesa, per circa 27 miliardi, è per larghissima parte finanziata in deficit.
In queste ore, esponenti della maggioranza e gran parte dei media hanno abbracciato un nuovo e straordinario concetto: la “flessibilità” concessa dall’Europa, cioè il permesso di gestire la finanza pubblica del 2016 con un deficit di quasi un punto di pil superiore al previsto, siano “introiti”.
Purtroppo, il deficit è esattamente il contrario: è una deroga all’obbligo di pareggio di bilancio, secondo il quale il totale delle spese deve essere coperto integralmente da un’ammontare di entrate di pari entità. Totalmente all’opposto di un introito, il deficit significa che lo Stato spende più di quel che incassa, azzera, dunque, il saldo “primario” (la differenza tra entrate e spese, senza considerare la spesa per interessi del debito pubblico) e, dunque, concretamente scarica sul futuro costi e spese, invece di intervenire per limare e ridurre l’immenso debito.
Di spending review si sente parlare, ormai, da anni e la formula ha stancato. Non perché non sia utile e corretto cercare di rivedere la spesa, ma soprattutto perché purtroppo a tentare di rivederla vengono chiamati dei grandi esperti esterni (Bondi, Cottarelli, da ultimo Perotti), che, regolarmente, scelgono male le modalità per rivedere la spesa, confondono la revisione con i tagli secchi e, comunque, presentano proposte regolarmente mai accettate dai Governi. Soprattutto perché generalmente la riduzione della spesa non si concilia con l’idea di aumentare la spesa utilizzando il deficit.
Dunque, la legge di stabilità 2016 si presenta come un insieme di idee sparse per un piccolo cabotaggio, molto inteso all’acquisizione del consenso: si conferma la spesa insostenibile di 10 miliardi per il piccolo cabotaggio degli 80 euro; si dimezzano gli sgravi per le assunzioni stabili, diminuendo anche quel cabotaggio; si consente di andare in pensione a 63 a e 7 mesi, ma ametà, con incremento del costo dei contributi figurativi; piccolo, piccolissimo cabotaggio i 13 euro in meno per il canone Rai che verrà esatto con la bolletta elettrica (dal che dovrebbe derivare quasi il raddoppio delle entrate complessive della rete televisiva), così come i 6,25 euro di incrementi pro capite per i dipendenti pubblici; non più rilevanti i 500 milioni per gli sgravi del salario di produttività (per lo più di straordinari) di quasi 18 milioni di dipendenti privati. Comunque, raggranellando 80 euro di qua, 6 euro di là, 13 di là ancora, possiamo stare tranquilli: riusciremo certamente ad accumulare i 3000 euro in contanti, per effettuare la nostra spesa quotidiana, senza il fastidio di doverci portare appresso le ingombranti carte di credito o i bancomat.
C’è la novità dell’eliminazione dell’Imu e della Tasi sulla prima casa: 220 euro di risparmio all’anno circa in media per le famiglie. Che comunque si dovranno pagare egualmente in qualche modo, visto che l’ammanco di circa 5 miliardi nelle casse dei comuni sarà in ogni caso coperto dallo Stato.
Ovviamente, il testo approvato dal Governo è tutt’altro che stabile. Possiamo stare certi che le misure previste saranno abbondantemente modificate dal solito maxiemendamento che stravolgerà il disegno di legge, per adattarlo in corsa ad assalti alla diligenza o ad errori tecnici e dimenticanze di vario genere. Aspetteremo con (legge di) fiducia.