MERCATI NERVOSI PER LA PAURA DELL’ESITO REFERENDARIO?
Il costo dei titoli del debito pubblico nelle ultime settimane è raddoppiato e lo spread con i bund tedeschi molto più largo rispetto a qualche mese fa. In più, i dati della produzione industriale a settembre dicono di un abisso dello 0,8%, a conferma che i risultati positivi di un mese anomalo come agosto non potevano che rientrare nel cosiddetto errore statistico.
La situazione economica nel suo complesso si è deteriorata in modo vistoso, anche se ancora non grave.
Giusto interrogarsi sulle cause, dunque. In un periodo come questo, di intensa e cruda campagna elettorale per il referendum confermativo della riforma della Costituzione era, quindi, inevitabile che qualcuno, molti, addebitassero questi indicatori negativi al “nervosismo dei mercati”, che si dipingono come impauriti dalla prospettiva che vinca il “no” e dal conseguente periodo di “instabilità” che ne deriverebbe.
Ammettiamo che queste riflessioni siano corrette e colgano nel segno. Ammettiamo, cioè, che la causa della tensione dei mercati non sia l’ennesima legge di bilancio a deficit, finanziata con poste precarie e incerte come la voluntary disclosure e la solita “lotta all’evasione”, che non riduce di un centesimo il rapporto debito/pil e si regge su una chiarissima sopravvalutazione della crescita del pil del 2017; e che, allo stesso modo, non influiscano su titoli del debito pubblico e spread l’atteggiamento molto critico e ruvido della Ue sulle richieste del premier di ottenere sempre maggiore “flessibilità” (cioè ulteriore deficit) e che le elezioni Usa, molto più determinanti e strategiche per le sorti dei mercati mondiali, a loro volta non abbiano avuto alcuna influenza.
Poniamo, quindi, che sì, effettivamente la cattiva performance di titoli e spread sia la “tensione” per gli esiti referendari.
Posto e dato per corretto tutto ciò, allora, forse occorre una riflessione. Se davvero si era certi e sicuri che la riforma della Costituzione è necessaria per rilanciare l’Italia, farla uscire dalle secche, renderla più efficiente e “continuare sulla strada delle riforme”, considerando, però, che la lotteria del referendum non avrebbe potuto non creare “tensioni” occorre porsi anche qualche domanda. Come ad esempio: perché si è insistito ad approvare la riforma della Costituzione senza perseguire la più estesa condivisione possibile, come richiede la Costituzione stessa? Perché si è forzata la mano, ad esempio cambiando gli esponenti del partito di maggioranza nelle commissioni, o ghigliottinando gli emendamenti e le proposte di modifica con i “canguri”, votati a notte fonda? Perché si è accettato il rischio di ingenerare tensione nei mercati, scegliendo di approvare la riforma a qualsiasi costo e, dunque, attivando inevitabilmente la campagna del referendum confermativo? Perché, ancora, a cose fatte, cioè a riforma imposta a colpi di maggioranza, con un Parlamento lacerato e un Paese profondamente diviso, si è scelto di tirare in là il più possibile col voto, invece di fare presto e, quindi, limitare la “tensione” dei mercati?
Tutte domande alle quali difficilmente si riscontreranno risposte. Soprattutto perché in campagna referendaria sarebbe troppo scomodo evidenziare che le risposte dovrebbero concentrare necessariamente l’attenzione sulla responsabilità molto forte di chi ha forzato la mano, con un vero e proprio azzardo, che rende l’Italia ancora più vulnerabile di quanto non sia all’occhio dei mercati, specie dopo l’imprevisto, ma invece prevedibile, risultato delle elezioni Usa.
E l’azzardo rischia di essere comunque tale, qualsiasi sia l’esito del referendum. Dovesse vincere il no, potrebbe avverarsi la profezia negativa che si autoalimenta, con l’apertura di una crisi politica alla quale verosimilmente potrebbe accompagnarsi una tempesta economica. Ma, anche dovesse vincere il sì il rischio di una crisi economica sarebbe comunque enorme, perché è comunque chiaro che la riforma della Costituzione non può in alcun modo sortire, né nell’immediato, né nel lungo periodo, l’effetto di ammodernare il Paese, ridurre il debito, appianare il deficit, rilanciare il pil e la produzione industriale. Alla fine, si scrive referendum, ma si legge cul de sac.