Il precariato diminuisce o aumenta con la riforma del lavoro?
Il precariato diminuisce o aumenta con la riforma del lavoro? Sul cosiddetto “Jobs Act”, cioè l’insieme delle norme attuative della legge 183/2014, i giudizi sono molto polarizzati: da una parte chi ne sostiene la certa capacità di modificare in meglio l’ordinamento lavoristico; dall’altra, chi evidenzia rischi e punti critici della riforma.
Un dato appare certo: il Jobs Act interviene sulle tutele, tanto è vero che la riforma della disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato viene qualificata espressamente a “tutele crescenti”. Del resto, l’iniziativa della maggioranza, come dimostrano le molte dichiarazioni dei suoi componenti, premier in prima fila, evidenziano che il Jobs Act punta all’estensione delle tutele, mediante un’operazione di “redistribuzione”. Il nuovo diritto del lavoro punterebbe, a dire dei sostenitori della riforma, a limare l’eccesso di tutele di alcuni lavoratori, quelli “protetti” dall’articolo 18, per incrementare le tutele dei lavoratori esclusi. In questo modo si eliminerebbe il dualismo del mercato, cioè la differenziazione eccessiva tra protetti e non protetti, rendendolo meno squilibrato e puntando a tutelare i lavoratori non “nel posto” di lavoro, ma “nel mercato”.
La sostanziale cancellazione della reintegra, secondo i fautori della riforma, permetterà alle aziende di considerare maggiormente vantaggioso assumere con contratti a tempo indeterminato. E questa è la vera tutela e protezione nel mercato: un più ampio ricorso al contratto maggiormente ambito e richiesto. Un maggior numero di contratti a tempo indeterminato significa di per sé riduzione del precariato. La risposta alla domanda, dunque, è che la riforma aumenta tutele e certezze.
Occorre, tuttavia, verificare se queste suggestioni possano davvero reggere. Trascuriamo il problema della “droga” al lavoro a tempo indeterminato derivante dai forti sgravi triennali previsti dalla legge di stabilità 2015; tralasciamo anche la questione del cosiddetto “effetto sostituzione”, cioè dell’eventualità molto probabile che il maggior numero di contratti a tempo indeterminato non garantirà più occupati, ma la modifica del tipo di contratti di lavoro stipulati; evitiamo anche di approfondire il tema del pericolo che fra tre anni, esaurito l’effetto degli sgravi previsti dalla legge di stabilità molti neo-assunti col contratto a tutele crescenti potrebbero essere lasciati a casa.
Per rispondere con più consapevolezza alla domanda iniziale, occorre prendere atto di un fatto forse banale, ma al quale in pochi pensano. Effetto della riforma è configurare il contratto a tempo indeterminato non come contratto che “a vita” lega datore e lavoratore, bensì un contratto nel quale non è determinato quando il rapporto potrà essere sciolto. Se ci si pensa, è una rivoluzione copernicana.
Ma, se le cose stanno così, allora, il nuovo lavoro introdotto dal Jobs Act non può che essere “precario”, se dell’aggettivo si recupera il significato profondo ed etimologico. Precario viene dal latino precarius, a sua volta derivante dal prex, cioè preghiera. Precario, dunque, è “ciò che è ottenuto per preghiera” oppure “ciò che si esercita per permissione o tolleranza di qualcuno”. Nel parlare comune al termine “precario” si dà maggiormente rilievo al suo significato traslato di “temporaneo” o “non stabile”.
Il significato profondo, invece, rivela che “precario” è una condizione che dipende dalla volontà altrui, condizione che, dunque, potrà essere mantenuta finchè al concedente il beneficio aggradi e piaccia.
In questo senso, allora, il Jobs Act estende la precarietà, perché effetto indubbio e incontestato è quello di attribuire al datore di lavoro un potere sostanzialmente insindacabile (o comunque non rimediabile con la reintegra) di concludere il rapporto di lavoro. Ma, l’effetto precarizzante non è tanto questo, quanto il prendere atto che il contratto di lavoro diviene maggiormente precario, proprio in quanto in tutto configurato come atto “di concessione” che il datore fa nei confronti del lavoratore.
Il Jobs Act, dunque, rende maggiormente evidente il disequilibrio tra la parte debole del contratto, il lavoratore, e il datore, che diviene dominus assoluto del rapporto. Tanto da acquisire, mediante il terzo decreto attuativo, anche del potere unilaterale (dunque non contrattato) di demansionare il lavoratore.
La precarietà, dunque, non è tanto la sussistenza, fisiologica, di un “termine” al rapporto di lavoro, quanto, soprattutto, l’attribuzione definitiva al datore di lavoro di un potere sostanzialmente assoluto ed unilaterale, molto pervasivo a fronte di una soggezione estrema del lavoratore.