DISOCCUPAZIONE IN CALO E OCCUPAZIONE IN LIEVE CRESCITA MA NON E’ ANCORA UNA SVOLTA
Disoccupazione in calo, occupazione in leggera crescita. Il 2016 si apre con i temi sul lavoro sempre caldi e scottanti e col Governo sempre prontissimo a trionfalismi sui dati forniti, questa volta dall’Istat.
Effettivamente, dalle rilevazioni Istat relative al mese di novembre 2015, per la prima volta dopo mesi e mesi risultano contemporaneamente due dati positivi: il tasso di disoccupazione che, rispetto a ottobre 2015, scende dall’11,5% al’11,3%; ed il tasso di occupazione, che, sempre rispetto a ottobre 2015, sale dal 56,3% al 56,4%. Il tasso degli inattivi, cioè delle persone prive di lavoro, ma che hanno rinunciato a cercarlo attivamente, è rimasto fermo al 36,3%.
Il quadro, quindi, si presenta realmente positivo. Il problema consiste nel comprendere “quanto” positivo esso possa essere considerato.
Ovviamente, il premier non ha mancato di postare un tweet miracolistico, che urla alla volta buona e all’Italia che riparte, grazie al Jobs Act.
A guardare le cose in modo più approfondito, i dati positivi di novembre dovrebbero essere pesati e tarati con molto minore entusiasmo.
A partire, in primo luogo, dalla contemporanea rilevazione dell’Eurostat, che conferma sì il dato del tasso di disoccupazione dell’Italia all’11,3%, ma impietosamente rivela che in merito la performance dell’Italia è particolarmente deludente: la Germania, prima della classe, ha una disoccupazione del 4,5%; il tasso medio di disoccupazione nell’Europa a 28 Paesi è del 9,1% e l’Italia nella graduatoria è al 24° posto, seguita dalle Nazioni che hanno subito in modo più grave la crisi: Portogallo, Cipro, Croazia, Spagna e Grecia.
Dunque, a fronte della confortante riduzione della disoccupazione, occorre prendere atto che essa diminuisce molto meno che nel resto dell’Europa che conta.
Soprattutto, è ancora troppo esigua la crescita del tasso di occupazione, la vera cartina di tornasole dello stato di salute dell’economia e del mercato del lavoro. Anche nel rapporto tra novembre 2015 e 2014 c’è una crescita, ma contenuta nello 0,9%, per circa 206.000 posti.
Quest’ultima cifra deriva da una riduzione di lavori indipendenti per 41.000 unità, ed un aumento sia dei lavori a tempo indeterminato per 141.000 (su base annua) e di 106.000 unità (sempre su base annua) di lavori a tempo determinato.
Il maggior numero di contratti di lavoro a tempo indeterminato rispetto a quelli a tempo determinato è stata ulteriore ragione d’esultanza degli esponenti del Governo, i quali affermano che ciò è dovuto grazie alla riforma dell’articolo 18 ed all’introduzione delle “tutele crescenti”.
Tuttavia, anche in questo caso l’analisi più meditata dovrebbe portare a maggior prudenza. E’ assolutamente normale che su base annua i lavori a tempo indeterminato siano in quantitativo maggiore rispetto a quelli a tempo determinato, perché lo stock del lavoro permanente è 14,5 milioni circa di lavoratori, mentre quello del lavoro a termine è di 2,43 milioni circa.
Il dato che dovrebbe lasciar meno spazio a facili entusiasmi è legato, allora, all’incremento percentuale. Il lavoro a tempo indeterminato su base annua è cresciuto dell’1%, cosa certamente ottima, anche se asfittica; il lavoro a tempo determinato, invece, sempre su base annua, è salito di oltre 4 volte, cioè del 4,5%. Dunque, anche se i numeri assoluti del tempo indeterminato sono maggiori, la crescita del tempo determinato è risultata di gran lunga superiore. E questo, nonostante il Jobs Act e le tutele crescenti.
Soprattutto, i dati dell’Istat confermano i fortissimi dubbi sull’efficacia della contribuzione prevista nel 2015 per le assunzioni a tempo indeterminato. Per il 2015, la legge di stabilità ha previsto una spesa di circa 2 miliardi finalizzati alla decontribuzione: se ciò ha portato a circa 100.000 nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ciò vorrebbe dire che una spesa media pubblica per ogni nuovo rapporto di 20.000 euro. Non un gran che né in termini di efficienza, né, soprattutto in termini di capacità di rilanciare davvero l’occupazione.
Insomma, la circostanza che a novembre i dati risultino positivi è ovviamente da accogliere con favore, ma l’estrema esiguità dei numeri non rileva, purtroppo, una svolta effettiva nel mercato del lavoro e ci dà la sensazione di una ristretta e congiunturale crescita, la cui conferma nel tempo è tutta da verificare.
Luigi Oliveri