TUTTI LO USANO NELLA PROPRIA QUOTIDIANETA’. STRUMENTO DI RELAZIONE SOCIALE HA LE SUE CONTROINDICAZIONI
Pochi giorni fa l’agenzia Ansa ha pubblicato una breve nella quale annunciava il superamento dei 900 milioni di utenti al mondo dell’applicazione WhatsApp. Il lungimirante Mark Zuckerberg, papà Facebook per chi non lo sapesse, nel 2014 ha fatto una delle scelte d’affari piú azzeccate della sua vita acquistando l’app di Jan Koum per 19 miliardi di dollari. Ora starà sicuramente festeggiando, galvanizzato dalla prospettiva di raggiungere il miliardo di clienti perché si sa, in un mondo come il nostro, i numeri sono importanti, magari non sai bene come figurarteli, dare loro una forma precisa, ma se si possono tradurre in denaro acquistano subito un senso. Aldilà dei pensieri quantitativi, personalmente mi premeva il lato qualitativo della medaglia. Come un’applicazione per smartphone è riuscita ad incidere sulle nostre relazioni umane?
Non sono né psicologa né sociologa, ma una semplice osservatrice. WhatsApp è una delle realtà digitali che negli ultimi anni ha penetrato più fortemente e profondamente la nostra quotidianità, parlando in termini generali, che non sono mai corretti ma necessari. “Chi non ha WhatsApp alzi la mano!”, mi figuro questa esortazione posta in un’aula universitaria di 350 posti piena zeppa di studenti. Le mani non alzate si conterebbero, scusate l’orribile gioco di parole, sulle dita di una mano. “WhatsApp è bello, utile e divertente, poi ormai lo usano tutti!”, è il miglior spot promozionale che l’amico al passo coi tempi ti può propinare, tu, affezionato ai preistorici SMS. Chat, foto e vignette, video e messaggi vocali, registrazioni, indicazioni stradali e via dicendo. Utilità e praticità sono innegabili, ma guardo me e il mondo attorno e mi pare ci siano alcune cose che non tornano. Prendiamo ad esempio i gruppi WhatsApp: un semplice gruppo di amici lo crea per farsi quattro risate, organizzarsi le serate e così via. Accade, ad un certo punto, che qualcosa si incrina. Una o più persone litigano o passano un periodo poco piacevole e decidono di uscire dal gruppo. Bene, avete presente lo scalpore quando nel 1992 il chitarrista John Frusciante decise di lasciare i Red Hot Chili Peppers? Uscire da certi gruppi di WhatsApp crea lo stesso marasma, se non peggiore. Quasi come conseguenza logica, va a coincidere con l’estraniamento dal gruppo di amici in carne ed ossa. Si arriva inconsciamente a dimenticarsene, scordarsi di avvisare quella persona di una festa di compleanno o di una serata in compagnia. Per alcuni può essere l’obiettivo, per altri un banco di prova per vedere chi si fa vivo nonostante l’allontanamento, per altri ancora significa semplicemente vedere il telefono vibrare la metà delle volte. Curioso è il fatto che la piattaforma digitale vada quasi a combaciare con la vita reale, esasperandola emotivamente.
WhatsApp crea obblighi: visualizzare, leggere, rispondere, ma soprattutto plasma un suo orizzonte temporale. Le attività devono essere svolte in tempi accettabili e celeri, che non lascino momenti di vuoto, di silenzio, di assenza, altrimenti nel cervello scattano come una molla pensieri quali: “Ha visualizzato ma non ha risposto, sarà arrabbiato? ”, “Non visualizza da tre quarti d’ora, cosa starà facendo di così importante?”, “Perché mai ha risposto sul gruppo ma non sulla nostra conversazione privata?”, “Hanno letto tutti ma nessuno si è azzardato a dire se va bene o no andare al cinema stasera, che avessero altri programmi in cui non mi hanno coinvolto?”, “Ma sono sempre io a scrivere? Ha senso oppure no mantenere in vita questo gruppo? Si sono stancati tutti, ognuno per la sua strada”. Le congetture che nascono come gramigna tra le spighe di grano sono molteplici e la mente umana è in grado di vagare verso l’infinito e oltre, parafrasando Buzz Light Year. Quel che pare ovvio è che WhatsApp ha creato un suo globo in cui tutto può essere interpretato ma soprattutto frainteso con molta semplicità.
Poco importa se avevi le mani occupate col volante dell’auto, se stavi passando i prodotti sulla fotocellula di una cassa di supermercato, se avevi la febbre o la mente impossibilitata per qualsivoglia ragione a formulare una risposta di senso compiuto. Se non hai preventivamente avvisato di lentezze o impedimenti quasi non sei giustificabile. Per precisare, non sto parlando a livelli di consapevolezza, bensì di inconscio. Sì, perché siamo bravissimi a creare strumenti, surrogati umani, prolunghe tecnologiche e mondi digitali con i quali “semplificarci” la vita, peccato che gli stessi hanno portato ad un’accelerazione dell’esistenza, alla nascita dello stress, all’obsolescenza programmata madre del consumismo e causa del decadimento del nostro pianeta. Si tratta per lo più di soluzioni atte a risolvere i problemi che la loro stessa introduzione hanno creato. Gli spot pubblicitari ci tartassano per creare in noi il bisogno di possedere i mezzi per raggiungere la libertà, superare i propri limiti, andare al di là delle convenzioni, godersi la vita fino in fondo. Non abbiamo più privacy, la nostra identità è perlustrabile anche solo a livello superficiale da chiunque, siamo controllati in quello che diciamo, pensiamo e facciamo, ma siamo liberi di esprimerci. Siamo sotto l’occhio del Grande Fratello, ma la tragedia è che siamo noi ad averlo voluto ed accettato. La semplice dimostrazione sono le ansie e gli obblighi dai quali ci facciamo condizionare, consapevoli o meno, in una conversazione di WhatsApp con gli amici di sempre, i compagni precedenti quest’ultima recente epoca, che prima contattavi con un sms, una chiamata al fisso di casa o una suonata di citofono, quando si faceva tutto ugualmente con una serenità nell’animo ormai lontana.