PER I MIGRANTI INVOCHIAMO L’EUROPA MA NIENTE STRANIERI NEI NOSTRI MUSEI
Provincialismo da museo. Ancora una volta la stampa e gli opinion leader italiani non hanno perso l’occasione per confermare la propria esterofilia acritica. L’occasione è stata data dalla nomina dei nuovi 20 direttori dei principali musei italiani, dei quali 7 sono stranieri.
I media, vista la notizia, allora su cosa hanno concentrato la loro attenzione? Sul curriculum degli incaricati, sul sistema di selezione, su osservazioni eventualmente critiche in relazione agli esiti, sul passato operativo dei nuovi direttori? Nulla di tutto ciò.
L’imperante senso di inferiorità italica rispetto all’accento d’oltralpe, figlio di secoli e secoli di dominazioni straniere e del “Franza o Spagna, purchè se magna”, trionfa ancora una volta.
Dunque, la “notizia” lanciata dai giornali ed, ovviamente, spinta a pieni polmoni dal Governo, è che appunto 7 dei 20 direttori sono stranieri.
Come se il tratto caratterizzante la “svolta” enunciata dal Ministero dei beni culturali nelle modalità di scelta e selezione dei direttori dei musei fosse il passaporto posseduto da una certa percentuale delle persone da incaricare. Come se, dunque, la loro preparazione culturale ed i risultati ottenuti non contassero nulla.
Probabilmente, tutti i 20 direttori selezionati sono bravissimi e più che degni dell’incarico ricevuto. Altrettanto probabilmente, molti altri candidati avrebbero potuto ottenere quegli incarichi, ma con le selezioni è così: qualcuno vince, qualcun altro aspetta la prossima occasione.
Il fatto è che gli osanna alla nazionalità straniera dei 7 sono completamente fuori luogo. Sul Corriere della sera Gian Antonio Stella, che si schiera tra gli entusiasti delle nomine, osserva come molti italiani siano andati a dirigere importanti istituzioni culturali all’estero, citando Salvatore Settis e Claudio Abbado e sottolineando che all’estero selezionare anche professionalità straniere è perfettamente normale.
Certo che lo è. Il fatto, tuttavia, è che l’apertura estera verso manager o dirigenti (come professori universitari, o ricercatori o scienziati) stranieri non è di per sé il moto che spinge le istituzioni all’incarico. E’ semplicemente una casualità: chi seleziona guarda con attenzione i curriculum, i titoli di merito, la professionalità, le capacità dimostrate, la loro compatibilità con gli obiettivi previsti con l’assegnazione dell’incarico e sulla base di questo decidono a chi affidare gli incarichi, considerando il passaporto un mero accidente, un dettaglio sostanzialmente trascurabile, in quanto del tutto non rilevante ai fini del risultato da ottenere.
Magari sarà stato esattamente ciò che ha ispirato l’azione della commissione ministeriale incaricata della selezione. Tuttavia, la stampa di come ha agito la commissione e degli effettivi titoli di merito degli incaricati non fa la minima menzione e guarda al dettaglio della nazionalità come al vero “risultato” della “svolta” del Ministro Franceschini. Che, nelle interviste rilasciate sull’argomento, invece, giustamente rivendica di aver condotto la selezione guardando al merito.
Il vero tema avrebbe dovuto essere un altro. La riforma dei beni culturali e della normativa sui musei punta molto sulla valorizzazione dei siti e, cioè, sulla capacità di fare marketing ed attrarre i visitatori non solo con le indispensabili mostre ed iniziative di alto livello culturale, ma anche con iniziative di comunicazione ed “imprenditoriali” (ristoranti interni, rivendita di materiali, fundraising, sponsor e pubblicità). Dunque, la scelta di direttori avrebbe dovuto coinvolgere persone dotate anche di competenze di natura manageriale-imprenditoriale. Tanto che molti critici della riforma avevano paventato il rischio che a capo delle strutture museali si ponessero manager della Coca Cola o imprese poco coerenti col difficile compito di custodire e valorizzare l’arte.
I direttori scelti, tuttavia, per lo più mostrano nel loro curriculum competenze in materia di storia dell’arte e comunque connesse con l’indispensabile cultura della conservazione e tutela, più che una acclarata capacità imprenditoriale.
Il problema vero, allora, non è la nazionalità, bensì la corrispondenza del profilo delle persone selezionate ai fini previsti dalla riforma.
Se i giornali avessero affrontato la vera questione, sarebbe emerso il vero vizio della normativa, rilevato da Philippe Daverio: la presupposizione di poter concentrare in una persona sola capacità troppo eterogenee tra loro (errore commesso anche con la riforma della scuola in merito al ruolo dei presidi). Negli Usa, ad esempio, i direttori dei musei possono anche essere stranieri, in quanto la gestione sotto tutti i suoi aspetti non è solo nelle loro mani, perché vi sono consigli scientifici e dei manager per il marketing.
Luigi Oliveri