In Grecia a Salonicco dove la crisi favorisce l’aggregazione e dove aumenta la religiosità.
Salonicco è una citta di monumenti soffocati, di scritte sui muri, di cani e gatti randagi che si guardano con sfida e poi si ricordano di essere troppo pigri per essere nemici. E’ una città di mercanti ambulanti che non urlano, di giovani e di locali. Quando arriva la sera, si trasforma. Dei brutti palazzi rimangono solo le ombre, ogni vicolo nasconde un mondo di taverne, offuscato dal fumo di sigarette e di carne arrosto, si beve retzina e si ascolta musica. Una delle parole basilari di ogni lingua che non occorre imparare in greco è ACQUA. L’ospitalità greca prevede che tu non debba mai chiederla né tantomeno pagarla e, a ben pensarci, ti stupisci che ciò ti stupisca. Contrariamente alle aspettative, bar e ristoranti sono pieni di gente che chiacchiera, ride, fuma, ed ordina un’infinità di portate diverse. Mi spiegano che con la crisi, le taverne sono gli unici posti dove valga la spena spendere qualche soldo. Le persone sono gentili, garbate, sorridenti. Quando capiscono che non sono greca, subito mi chiedono se per caso non sia tedesca. La loro ossessione per la Germania li rende irrazionali, come possono anche lontanamente pensare che io venga da lì? Quando rivelo di essere italiana sorridono. “Una faccia una razza” ci ripetiamo a vicenda guardandoci con complicità. L’ultima sera, davanti un vicolo, incontro un anziano signore con un bouzouki (lungo mandolino greco ndr). Gli chiedo se conosce un posto dove suonano dal vivo il REBETIKO. Il mio greco evidentemente tradisce che sono straniera. “Di dove sei? tedesca?” mi chiede guardandomi con diffidenza come se dalla mia risposta dipendesse la sua. “Vengo dall’Italia” e ricevo in cambio un assertivo mugulio di approvazione. I Greci non parlano volentieri di politica. In una defilata strada di campagna, facciamo una sosta davanti una bancarella di frutta e verdura, dove un’anziana ma energica signora inizia a spaccare con le mani tutto ciò che ha in esposizione per farcelo assaggiare. Mi riempie un barattolo di olive e mi parla di Tsipras e di Samaras, facendo di tutta l’erba un fascio, ed ostentando un’aria disgustata. Qualsiasi strada,anche la più scoscesa e sperduta, è costellata da edicole votive. La sera, per le strade di Salonicco, capita di venire rapiti da una sommessa cantilena che si impone sul rumore del traffico. Nelle basse chiese ortodosse, circondate da palazzi tanto alti da farle sembrare abusive, si celebra messa al buio, illuminati solo da qualche sottile candela e storditi dal profumo di incenso. Una signora si scosta per farmi sedere ed osservare meglio. Mi dicono che da quando c’è la crisi anche i giovani hanno ricominciato ad andare in chiesa. Lascio Salonicco la mattina presto, con un cielo grigio ed un primo accenno di pioggia. La città è calma, tutto è lento come le sue pause caffè. Mentre vado verso l’aeroporto, ripenso al debito della Grecia. Quello che noi abbiamo verso di lei.