I tweet? Non sono legge #occasionemancata
Impossibile nascondere la delusione per la decisione del Consiglio di Stato, che con la sentenza della Sezione VI 12 febbraio 2015, n. 769, ha inflitto un colpo ferale alla modernità e alla velocità che caratterizzano l’oggi.
Ammantati delle loro toghe stantie, ancestrali, nell’aula che sa di legni antichi, archivi cartacei, carta carbone, gomme e inchiostro di china, i giudici dell’alto consesso amministrativo hanno, purtroppo, sancito: i tweet non hanno valore giuridico.
Insomma, contro il logorio del diritto moderno, non una bevanda al carciofo, bensì una sentenza, diciamolo, retrograda, che respinge la modernità. Tommaso Marinetti si rigira nella tomba al solo pensare quanto accaduto.
Per i cultori del diritto, ma per ogni cittadino, resta l’amaro in bocca di un’occasione mancata.
Ma ci pensate? La Costituzione italiana è formata da 139 articoli lunghi e complicati,tanto che per riformarla occorrono ben 4 votazioni a distanza di 3 mesi. Quanto sarebbe tutto più semplice se invece di 139 articoli, tutto fosse condensato in 140 caratteri? Basterebbe un hashtag nuovo per riformarla: “#labuonaCostituzione”. E il gioco sarebbe fatto!
Lo stesso varrebbe, ovviamente, per ogni altra norma. Le scuole cadono a pezzi, per mancanza di risorse? Un tweet sarebbe sufficiente: “le scuole non devono cadere a pezzi.
#nopezzi”. Le tasse sono troppo alte? “Le tasse sono alte, non le abbassiamo oggi, ma domani sì #tassebasse”.
Eppoi, l’utilità dei tweet per i tempi della giustizia? Li vogliamo considerare? Altro che sentenze lunghe pagine e pagine, irte di capi, incisi, richiami, note. Un bel tweet: “Tizio ha ragione, Caio ha torto #lagiustiziagiusta” ed il processo è chiuso, altro che prescrizione.
Invece… invece no. Che ostinati, questi giudici del Consiglio di stato, che negano valore giuridico al tweet, per altro nel linguaggio pomposo, complicato e oscuro del lessico delle aule giudiziarie: “il Collegio osserva che gli atti dell’autorità politica, limitati all’indirizzo, controllo e nomina ai sensi del decreto legislativo n.165 del 2001, debbono pur sempre concretarsi nella dovuta forma tipica dell’attività della pubblica amministrazione (Cons. Stato, V, 24 settembre 2003, n.5444, Cassazione civile, sezione II, 30 maggio 2002, n.7913; III, 12 febbraio 2002, n.1970), anche, e a maggior ragione, nell’attuale epoca di comunicazioni di massa, messaggi, cinguettii, seguiti ed altro, dovuti alle nuove tecnologie e alle nuove e dilaganti modalità di comunicare l’attività politica”.
Insomma, con i tweet non si legifera e amministra, perché la “forma tipica dell’attività amministrativa” resta pur sempre il “documento”, con carta intestata, motivazione, decisione e, persino, firma autografa (ovviamente in calce) dell’autorità “competente”.
E c’è voluta una sentenza del secondo grado della giurisdizione amministrativa per accertarlo e dichiararlo solennemente.
Forse era meglio davvero che i tweet avessero avuto già valenza giuridica: magari ci saremmo risparmiati costi e tempi di due gradi di giudizio per “apprendere” l’assenza di valore giuridico di un cinguettìo.
E sapete perché sono così sicuro di quanto sto scrivendo? Me l’ha detto un uccellino.