MEGLIO LA VITA CHE LA MORTE E SI CAMBIA L’INNO NAZIONALE.
Una Nazione che non è nemmeno capace di conservare il messaggio del proprio inno nazionale che messaggio dà a se stesa e al mondo?
L’episodio avvenuto all’inaugurazione dell’Expo lo scorso 1 maggio, con la modifica del verso finale dell’inno di Mameli, chiuso con “siam pronti alla vita”, ha oggettivamente dello sconcertante.
Non è dato sapere chi abbia avuto la brillante idea di far cantare al coro dei bambini l’inno modificato. Di certo, il tutto sa molto del pop-renzismo imperante e dell’imperante camouflage dei dati, della realtà, da raccontare necessariamente secondo un’ottica di ottimismo a tutti i costi. Del resto, si sa, proprio uno dei grandi amici e promoter di Renzi, Farinetti, per anni ha ossessionato gli italiani con lo slogan pubblicitario della sua catena di ipermercati elettronici: “l’ottimismo è il sapore della vita”. Nello slogan c’era scritto “vita”, non “morte”. Che sia l’ispirazione del camouflage all’inno di Mameli?
Inseguendo questo mondo parallelo della comunicazione della realtà, qualcuno, dunque, ha avuto la bella idea di modificare l’inno nazionale, davanti al mondo al quale l’Expo si rivolge.
Ci sarebbe da chiedersi quale altra Nazione mai avrebbe permesso una cosa del genere, lo stravolgimento totale del proprio inno, nel corso di una manifestazione ufficiale di grande portata (per quanto largamente snobbata da capi di stato e soprattutto governo). Ci immaginiamo gli Usa modificare anche solo una virgola The Star-Spangled Banner. E non si tratta certo di un inno che racconta rose e fiori, come dimostra il su passaggio centrale:
“Dov’è quella compagnia che vanagloriosamente ha giurato
che la devastazione della guerra e la confusione della battaglia
ci avrebbero privato sia della casa che della nazione?
Il loro sangue ha cancellato la contaminazione delle loro sporche impronte.
Nessun rifugio ha potuto salvare il mercenario e schiavo
dal terrore della fuga, o dalle tenebre della morte.
E la bandiera adorna di stelle sventola in trionfo
sulla terra dei liberi e la patria dei coraggiosi”.
E l’inno francese, la toccante Marsigliese? Non si tratta di un richiamo alla pace:
“Alle armi, cittadini
Formate i vostri battaglioni
Marciamo, marciamo! (Marciate, marciate!)
Che un sangue impuro
Imbeva i nostri solchi!”.
Goffredo Mameli, autore dell’inno, poeta e patriota, è morto davvero, negli scontri per la difesa della seconda repubblica di Roma, convinto dell’ideale della Nazione unita.
Ha lasciato a questa Nazione che non ebbe mai modo di vedere un’eredità, un collante, un inno che dopo la guerra ha sostituito quello sabaudo, nel tentativo complicatissimo di fare da fondamenta ad un’Italia che nel giorno dell’Expo ne ha rinnegato il significato.
“Siam pronti alla vita” è un verso che non significa nulla, che vulnera il testo dell’inno, fa apparire che noi italiani ce ne vergogniamo.
Quell’inno di Mameli, però, non è una canzonetta qualsiasi, che, come in un concerto, possa essere aggiornata, arrangiata, modificata nel testo. Quella dell’Expo non era un’esibizione canora, né l’occasione per lanciare slogan pubblicitari. Si è trattato di uno sfregio, improvviso, che nessuno aveva annunciato, risultato davvero sgradevole.
Soprattutto, perché non si sa, o meglio, si può temere il traguardo cui può condurre simile modo di intendere. Non piace la parola morte? la si sostituisce con vita. E non è certo la prima operazione di camouflage linguistico. L’erogazione del bonus di 80 euro, ad esempio, la si continua ostinatamente a chiamare “riduzione delle tasse”; l’operazione reazionaria di riorganizzazione della scuola, la si definisce “la buona scuola”; il contratto di lavoro che nega la tutela del reintegro nel caso di licenziamento illegittimo lo si definisce “tutele crescenti”.
A quando, allora, l’imposizione di un certo saluto, di un certo tipo di slogan, di un modo di vestire?