LE RIFORME NON DEVONO ESSERE IL RISULTATO DI UNA PROVA DI FORZA TRA MAGGIORANZA E OPPOSIZIONE
Le riforme dovrebbero essere approvate, si sa, nell’interesse complessivo di tutta una Nazione. E’ evidente che esse sono ispirata da una certa concezione politica ed economica, nonché dall’indirizzo politico della maggioranza in Parlamento e del Governo, come prevede la Costituzione.
Tale indirizzo politico dovrebbe rappresentare il comune sentire della maggioranza dei cittadini ed indicare l’esito finale, i risultati cui tendere che, comunque, debbono riguardare tutti, anche coloro che non hanno espresso consenso alla maggioranza, visto che il Parlamento ed il Governo rappresentano il Paese nel suo complesso e non una ristretta parte di esso.
Non sembra tuttavia che le cose siano così scontate, nell’esperienza di questi giorni. Ne è una cartina di tornasole molto precisa la riforma della scuola.
E’ noto che essa risulta estremamente contrastata dal mondo stesso della scuola e che, al di là di specifici interessi di interdizione delle parti contro interessate (i docenti, ma sarebbe anche molto interessante dare voce alle famiglie), essa sia connotata da indubbi elementi di autoritarismo organizzativo, senza chiari benefici sul sistema.
Risulta, comunque, evidente che tale riforma non è impostata come strumento per un risultato positivo di tutto il Paese e la Nazione, ma come prova di forza della maggioranza, ma verrebbe da dire, gruppo di potere al Governo.
Una prova di forza non basata sul consenso, ma addirittura attuata nonostante il consenso e nonostante le valutazioni sul merito, corroborata da una sorta di do ut des: la riforma, piaccia o non piaccia deve passare, ed in cambio si assumono 100.000 docenti.
Sicchè, calato il consenso elettorale e confermato il dissenso di merito sul contenuto della riforma, la decisione del premier di non effettuare più le 100.000 assunzioni ha il forte sapore della ripicca. Soprattutto perché le 100.000 assunzioni (lo scorso anno si parlava di 185.000 nuovi docenti, ma è un dettaglio) con la riforma non hanno alcuna connessione diretta: esse non sono condizionate dall’approvazione della riforma, che non a caso non ha nemmeno contenuti finanziari. Infatti, i 3 miliardi necessari a regime per pagare gli stipendi ai nuovi 100.000 docenti assunti a tempo indeterminato, se li si assumesse, sono stanziati dalla legge di stabilità del 2015.
Il che conferma come le assunzioni e la riforma siano ovviamente connesse, ma parallele, due strade che non si incontrano e che condizionare le prime alla seconda è solo una forzatura; ancor più forzato è, poi, non dare corso alle assunzioni perché ci sono gli “emendamenti” sul disegno di legge di riforma. E’ forzato perché appunto la riforma non condiziona le assunzioni e, soprattutto, perché il Parlamento non è un consiglio comunale, nel quale i consiglieri sostanzialmente votano in modo acritico testi di deliberazione “chiusi” e predefiniti. Il Parlamento ha il dovere e il diritto di discutere delle proposte di legge, modificarle e dunque emendarle, nell’ambito del dibattito tra maggioranza e opposizione. Gli emendamenti, dunque, sono una cosa naturale, doverosa e non un peso. Il problema è se la maggioranza riesce a tenere e fare quadrato sui contenuti di merito della proposta che intende far approvare.
Ma, se la maggioranza dubita della propria forza e, dunque, ritiene di rinviare a tempi più propizi la riforma, non dovrebbe accompagnare a questa decisione politica anche l’arma della mancata assunzione, come una sorta di “sanzione” per chi è dissidente nei confronti della proposta di riforma tra le forze parlamentari e per chi ha mostrato, anche col recente voto, di non sostenere la maggioranza come questa si aspettava.
La seconda forzatura deriva dalla circostanza che nel frattempo quei tre miliardi a regime dal 2016 (uno è già previsto per il 2015) rischiano di restare fermi e non spesi. Un lusso che le condizioni molto difficili delle finanze pubbliche non possono certo concedersi, specie se derivante da tatticismi e ripicche.