LA SCELTA DELLA SCUOLA PARITARIA NON PUÒ’ GIOVARSI DI SCONTI DA PARTE DELLA FISCALITA’
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La Cassazione, sancendo l’obbligo degli istituti paritari di pagare l’Ici, torna a mettere un dito nella piaga ancora aperta del rapporto Stato-Chiesa e, soprattutto, del modo tutto particolare di intendere il liberalismo in Italia.
Vi sono alcuni sedicenti liberali portati a ritenere che la libertà, appunto, possa consistere, nel campo dell’insegnamento (ma anche della sanità) nella possibilità di scegliere a proprio piacimento quale struttura utilizzare: pubblica o privata che sia. In modo, però, che se la scelta ricada sulla struttura privata, perché più bella, meglio tenuta, non cadente, patinata e raffinata, l’utente di tale struttura risulti esentato dal versamento dei tributi finalizzati al sostegno della scuola pubblica (o della sanità).
Non si tratta di un modello realmente liberale, ma, piuttosto, classista, tale da distinguere chi ha i denari per potersi permettere l’utilizzo di strutture private senza obbedire ad obbligazioni tributarie e chi, invece, non potendoselo permettere si dica disposto al minore onere tributario, per contentarsi di un servizio di istruzione non poche volte scadente, quanto meno per il disastroso livello delle strutture nelle quali si svolge.
E’ una visione della sussidiarietà e del patto sociale che lega i cittadini di un territorio oggettivamente assurdo e legato alla concezione di uno stato che di liberale non ha nulla: si tratta, infatti, di una visione di una nazione basata sulla divisione in classi o “stati” come la Francia di prima della rivoluzione del 1789. O, stando all’istruzione, come la stessa Italia post unitaria, nella quale la “sussidiarietà” era intesa come supplenza del privato alle carenze di un sistema di istruzione (ma anche sanitario) pubblico e diffuso per tutti e non, invece, come aggiunta, anche competitiva, ai servizi resi dalla pubblica amministrazione, di servizi resi da soggetti privati secondo livelli non inferiori a quelli stabiliti dalla regolazione pubblicistica. Sul punto, l’articolo 118, ultimo comma, della Costituzione è molto chiaro: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. La sussidiarietà è un completamento dei servizi, riconosciuto e favorito, non una supplenza ad una carenza.
Accettare l’idea che chi si rivolge a strutture private possa essere esentato dal tributo e che le strutture private, a loro volta, in quanto esercitino l’attività (per esempio quella di istruzione) debba essere esentata da parte dell’imposizione fiscale è oggettivamente assurdo.
Il dovere di ogni cittadino e di ogni ente che fa parte dell’ordinamento è contribuire secondo la propria capacità al sostentamento dei servizi da diffondere tra tutti i cittadini, a parità di condizioni di partenza. Non ci vuole molto a comprendere che il mancato gettito da Ici degli istituti paritari, quantificato in circa 500 milioni, scarica questa cifra sulla fiscalità generale, generando un assurdo: i cittadini che non possano permettersi le rette o, comunque, non intendano connotare l’istruzione dei figli secondo specifiche idee religiose, sono costretti a sostenere indirettamente la regalìa di 500 milioni che lo Stato concede agli istituti paritari.
Non è vero l’inverso. Chi ritiene di rivolgersi agli istituti paritari (o anche a strutture sanitarie private) compie una libera scelta, ammessa dalla Costituzione. Ma, se tale libera scelta implica costi, non può essere la fiscalità a farsene carico. Né chi scelga servizi privati può, senza conseguente, pretendere l’esenzione dalle prestazioni fiscali: egli considera gli standard dei servizi pubblici non soddisfacenti sulla base di proprie libere, ma singolari, valutazioni e pretende standard più elevati. Dunque, non può che addossarsi l’onere di sostenerne i costi. Non è immaginabile che tali standard più elevati siano sostenuti dalla collettività in favore di pochi, mediante indiretti carichi fiscali.
La pretesa delle scuole paritarie di non pagare l’Ici perché “sussidiano” l’istruzione pubblica e perché il carico tributario sugli immobili pregiudicherebbe addirittura la libertà di scelta nell’istruzione semplicemente non ha senso, è la pretesa di un privilegio odioso, di stampo medievale.
Il ragionamento sull’esenzione o meno dall’Ici potrebbe valere solo laddove le scuole paritarie svolgessero realmente una funzione di supplenza: come le strutture spesso religiose che aprono e gestiscono scuole materne e asili nido in comuni nei quali siano assenti simili strutture pubbliche. Oppure, l’esenzione potrebbe valere nell’ipotesi di scuole paritarie accreditate secondo standard precisi, che si assoggettino a regole pubblicistiche in tema di acquisti ed assunzioni in quanto qualificate come organismi di diritto pubblico e si assoggettino a rendicontazioni minute sulla spesa effettuata, un po’ come avviene nel sistema della formazione professionale, e, ulteriormente, accettino di erogare il servizio secondo non solo programmi pubblici e aconfessionali, ma in base a costi standard, sempre definiti in base all’accreditamento.
In caso contrario, se la parificazione si vuole riguardi solo i programmi scolastici, non si vede per quale ragione la fiscalità generale debba accollarsi un mancato gettito della portata di 500 milioni, proprio in tempi di tagli drastici e di spending review.