IMMAGINI DI MORTE DIVENTANO VIRALI SUL WEB .CONDIVISIONI INUTILI AUMENTANO L’INCERTEZZA ESISTENZIALE.
C’è un mondo nebuloso e ridondante: è quello delle polemiche di fronte alle tragedie. Dopodichè c’è una nicchia spazio-temporale ancora più indefinita, parossistica nella sua oziosità: quella delle polemiche sulle polemiche. Se la prima è quella che conduce all’esclamazione “mentre Roma discute, Sagunto brucia”, la seconda sembra osservare “mentre Roma discute e Sagunto brucia qui mi state rovinando la cena con queste immagini di distruzione, fate più piano, fate più in là”.
Intendiamoci. Ho letto molte argute argomentazioni in questi giorni sull’inopportunità di diffondere viralmente l’immagine del piccolo morto sulla spiaggia. Dal “mezzo-placebo per la nostra coscienza”, al pericolo di assuefazione all’orrore e al rispetto declinato in tutte le forme. Ma tant’è che quell’immagine è lì, presenza ingombrante di un trauma, e rimbalza in pochi minuti su tutti i media.
Ora, sinceramente io non so cosa sia giusto – condivido? non condivido? – proprio perchè ritengo che questo genere di discussioni rientri in un’oziosità dialettica che non ci possiamo davvero permettere, a questo livello critico storico. E sono anche d’accordo sulla posizione che chiamerei “inutilità funzionale” della condivisione, riassumibile in questi termini: a quale scopo condividere? I solidali non avevano bisogno di altre testimonianze per reclamare a gran voce diritti ed accoglienza mentre i fascisti ed i razzisti di ogni ordine e grado non muoverebbero di un millimetro il loro metro di giudizio. Sia perchè esso si posiziona ad un livello argomentativo para-razionale sia perchè, davvero, alcuni li considerano davvero “vittime collaterali di forze oscure e distruttive che possono interferire nelle nostre vite” come ha dichiarato Bauman. Quest’ultimo continua, proponendo una chiave di lettura che può, in parte, giustificare, certa repulsione nell’osservare quell’immagine: “… i migranti diventano ‘walking dystopias’, distopie che camminano. Ma in un’era di totale incertezza esistenziale, dove la vita è sempre più precaria, questa non è l’unica ragione delle paure che scatena la vista di ondate di sfollati fuori controllo. Vengono percepiti come ‘messaggeri di cattive notizie’, come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo cancellare (…) ci ricordano quanto vulnerabili sono le nostre vite e il nostro benessere”.
Quell’immagine esiste, fa parte del mondo, è, ora più che mai, una sua manifestazione. Credo che esista una notevole differenza tra quest’immagine e quelle delle barbarie dello Stato Islamico – ‘Daesh. Se per queste ultime posso riconoscere la validità di una forma di omissione della violenza esplicita in quanto essa stesssa rientra in un meccanismo di comunicazione e volontà politica che si inserisce nella balbuzia comunicativa dell’Occidente tutto, sfruttandone le maglie aperte e le contraddizioni, tramite la spettacolarizzazione della forza che ha fatto scuola proprio nel nostro vecchio Mondo, la prima, al contrario è il risultato di un crimine più sfuggente, non controllabile in quanto non categorizzabile nella dicotomia amico-nemico: quell’immagine rimanda noi davanti allo specchio.
E’ probabile, così come già vociferano alcuni media internazionali, che quell’immagine possa vincere prestigiosi premi internazionali, poichè racchiude una forza comunicativa paragonabile ad altri scatti simbolo del secolo scorso. I corpi scheletrici fuori dai forni crematori, il documentario di Lanzmann, i bimbi vietnamiti in fuga dal Napalm, la ragazza dagli occhi smeraldo in un campo profughi: cesure storiche, tragedie, documentazione ed arte. Oggi avevo sotto mano un articolo riguardante la nuova mostra sull’Olocausto che ha aperto in questi giorni a Cracovia. Uno dei curatori, Kaumkotter, mentre definisce la cornice teorica e materiale della mostra dichiara: “le opere realistiche che cercano di riprodurre Auschwitz sono dei fallimenti, perchè la loro simbolica e semantica non è adeguata alla dimensione dell’orrore”. Si può dire forse la stessa cosa della foto in questione. Inadeguata e fallimentare. Ma necessaria.
L’immagine non è mai neutra: così come lo erano le immagini dei corpi nel campo di concentramento. Ma non può ridursi a metafora. E’ un testo che rimanda ad altri testi, senza dubbio. Ma è prima di ogni cosa, prima di essere consegnata ad una comunità interpretativa, foto-di-soggetti.
Ed il bambino ha un nome, Aylan Kurdi. Aylan è un nome berbero che significa “scudo”, mentre il cognome rimanda innegabilmente all’origine della sua famiglia. Di Kobane, città devastata dalla guerra siriana, simbolo di macerie e resistenza. Curdi temporaneamente emigrati in Turchia, vessati, trasmigrati a Kos ed arenati sulla spiaggia di Bodrum. L’unico sopravvissuto alla tragedia è il padre che dichiara di voler tornare a seppellire i corpi della sua famiglia nella città natale, rinunciando ad inseguire il sogno di raggiungere il Canada, paese che precedentemente aveva negato il visto di rifugiati ora, pare, offerto sull’onda dell’emozione internazionale. Ma quest’ultimo è il testo da destrutturare, una narrazione internazionale incancrenita ed unidirezionale.
Al momento, ci basta ricordare lui, Aylan, ed i suoi sogni, che abbiamo stabilito essere meno leciti dei nostri.