TAXI NO UBER ! IL TRIBUNALE BOCCIA LA CONCORRENZA VIA SMARTPHONE DEL TRASPORTO PUBBLICO.
Le sentenze non si discutono e, dunque, va accettata e rispettata la pronuncia del Tribunale di Milano che ha messo fuori gioco il sistema Uber Pop, l’app per smartphone che consente di chiamare autisti al posto dei taxi, a prezzi molto più convenienti e con un sistema più capillare.
Una vittoria per i tassisti che vedono, ovviamente, Uber come il fumo negli occhi, visto che si tratta di un concorrente potentissimo e temibile.
Le argomentazioni della sentenza, alla luce della normativa vigente, sono ineccepibili: Uber pone in essere una concorrenza sleale, dal momento che consente di erogare il servizio di trasporto pubblico non di linea a costi inferiori rispetto a quelli del taxi. Infatti, gli autisti di Uber non debbono avere una licenza (è noto che le licenze sono oggetto di salatissime compravendite), non debbono dedicare la loro auto esclusivamente all’attività di trasporto, non sostengono i costi di associazione in cooperativa, né affrontano la spesa per l’installazione nella loro vettura degli impianti di chiamata dalle centrali di servizio.
Tutto vero, tutto giusto. Uscendo, tuttavia, dall’analisi di mero diritto, stona moltissimo leggere che il servizio Uber fa “concorrenza sleale” perché offre il servizio a costi inferiori.
Da anni ci spiegano e convincono che la mitica “concorrenza” nell’ancor più mitico “mercato libero” è la panacea a tutti i mali. Si parla da anni di “privatizzare” i servizi pubblici per renderli più efficienti e meno costosi per la clientela, guardando a 360 gradi a tutti i tipi di servizi pubblici, a partire dalla distribuzione dell’acqua. Non è un mistero che anche la controversa riforma della scuola sia fortemente influenzata da elementi di liberismo, testimoniati dall’occhio di riguardo alla scuola privata e al tentativo di far passare per essa finanziamenti pubblici, sotto le spoglie del 5 per mille, tentativo fin qui non andato in porto ma rinviato alla prossima legge di stabilità.
In teoria, dunque, tutto è liberalizzabile e da aprire alla concorrenza. Eppure, nonostante questo parlare, una delle più opportune liberalizzazioni, quella del trasporto pubblico non di linea, non si riesce a realizzare.
In Europa si combatte una battaglia durissima contro Uber: ma a chiunque, quando si parla di taxi, vengono in mente le immagini dei film Usa, che presentano le città letteralmente tappezzate dalle vetture gialle, che a prezzi del tutto modici trasportano i clienti ovunque e per chilometri.
In Italia, come è noto, trovare un taxi è impresa non di poco conto, sia per le code infinite alle quali si è costretti in stazioni o aeroporti, sia perché ne circolano davvero pochi, frutto del protezionismo che consente di ottenere il risultato certificato dal tribunale di Milano: prezzi alti, altissimi, cagionati dall’assenza di concorrenza e da un sistema con troppi costi non riferiti al servizio, ma all’organizzazione del servizio e alla fattispecie più unica che rara della vendita delle licenze.
Benissimo per la categoria dei taxisti (che certamente non naviga nell’oro) che le sia riservata una tutela, in fondo finalizzata anche a proteggere il loro investimento. Tuttavia, l’impossibilità di liberalizzare il servizio di trasporto pubblico non di linea sembra la cartina di tornasole di un liberismo a parole, molto deciso a sconfinare nei confronti di attività tipicamente pubbliche, ma molto fermo nel lasciare le cose come sono nel campo di servizi che, se aperti davvero alla concorrenza, farebbero davvero risparmiare molto ai cittadini e potrebbero anche contribuire al rilancio turistico, come quello dei taxi.